Chi sono?

Ritratto Valentina RodolfiIn ogni Blog di ogni professionista che si rispetti c’è una sezione che pone una questione insidiosa che si cela sotto l’infinitamente volte ripetuta domanda “Chi sono?”. Anche io alcuni anni fa, al momento della creazione di questo semplice Blog senza pretesa alcuna, mi sono trovata a dover rispondere all’annoso interrogativo. “Chi sono dunque?” che a ben guardare altro non significa che “Cosa è lecito, opportuno, vantaggioso che gli altri sappiano di me?”. Al tempo, nel tentativo di soddisfare la richiesta ho pensato che un modo per cavarmela in modo sufficientemente dignitoso sarebbe stato attenermi semplicemente alla ben radicata consuetudine di sciorinare una serie di risultati accademici e professionali magari enunciandoli in terza persona. La me di oggi chiederebbe alla me di ieri quanta paura avesse in fondo di rispondere a questa domanda dato l’evidente ricorso di massicce misure di distanziamento da qualcosa che in effetti mi ha riguardato e mi riguarda in modo più intimo di quanto sia abituale e “professionale” ammettere.

In ogni caso, svolto diligentemente il compito, ho considerato la faccenda chiusa cercando fino ad oggi di tenerla il più lontano possibile da me. “Chi sono?” è rimasto così cristallizzato per anni, benchè non mi mancassero certo le cose da dire o esperienze da aggiungere.

Ammetto anche di aver sempre provato un certo imbarazzo ogni volta che qualcuno consultava questa sezione. Non mi sono mai ritrovata nell’idea di definire me stessa con enunciati del tipo “ho scritto una tesi su…”, “ho lavorato presso…” , “ho collaborato con…” e ciò non significa che quello che ho fatto non mi abbia dato grandi soddisfazioni e gratificazioni. Il fatto è che, molto banalmente, parafrasare il mio cv (che allego qui in un disciplinatissimo e rigorosissimo formato europeo) non risponde alla domanda. Potrebbe rappresentare il modo più elegante, pomposo ed accettabile per aggirarla, ma non per soddisfarla.

Sono anni che ci rifletto: svolgo una professione che mi permette di entrare nella vita dell’altro, di toccarne in modo diretto aspetti intimi e profondi, chiedo di accordarmi fiducia, interpreto, scandaglio…però poi quando sono io a dover rispondere alla domanda “Chi sono?” tutto ciò che riesco a produrre è una lista di cose fatte, acronimi, titoli e abilitazioni che si suppone sia scontato abbia e che non dicono nulla di me, il tutto rigorosamente enunciato in terza persona.

Non rinnego certamente la presentazione che feci di me al momento della creazione di questo blog, che lascio intera qui sotto per chi la volesse consultare. D’altra parte sono anche quella che ha scritto quello che è stato scritto. Ad oggi però, per ragioni che sento ma che non ho ancora avuto occasione di tradurre in parole, ho necessità di riprendere questa domanda e di affrontarla.

Chi sono allora?

Ci potrebbero essere infiniti modi per approcciare la questione, infinite angolazioni. Tra tutte ne scelgo una, quella per me più significativa: la mia storia, il mio percorso, ciò che mi ha condotto un passo dopo l’altro dove sono ora. Non è una storia particolarmente entusiasmante o avvincente, è piena di discontinuità e passi falsi, è un insieme eterogeneo di attimi ed è anche evidente un certo grado di incoscienza. Ma è pur sempre una storia d’amore.

Nasco nel 1983 in un brutto quartiere di una bella città. Tanto umida dal punto di vista climatico, quanto fredda da quello emotivo.

I miei genitori fanno risalire il primo e precoce “da grande farò la psicologa!” alla tenera età di 7 anni. Anche se ai miei piace raccontarla così, e benchè sia una piccola leggenda familiare a cui sono tanto affezionata so che le cose andarono in un altro modo. Avrò avuto certamente qualche anno in più quando nell’immensa libreria di saggi storici di mio padre trovai un libro un po’ diverso dagli altri. Si chiamava “Il vero psichiatra” di F. Caprio del 1960 (nell’edizione del ’66). Il libro, incomprensibile per la mia comunque giovane età e per il gap socioculturale lungo almeno tre decenni forniva alcuni spunti pratici da utilizzare nella vita di tutti i giorni esemplificandoli attraverso la narrazione di casi verosimilmente verificatisi. Non ricordo assolutamente nulla di quel libro, se non l’unica frase che ho conservato dentro di me da quel momento e che, con un ragionevole grado di approssimazione, diceva “lo psichiatra non ha mai guarito nessuno, un bravo psichiatra lascia che siano le persone a curare loro stesse” (la figura dello “psicologo” per come lo intendiamo oggi non è esistita fino al 1989, anno della sua istituzione). Ero solo una bambina ma per qualche motivo quella frase mi impressionò tanto da sopravvivere dentro di me per altri tre decenni.

Nonostante queste infantili premesse, nel 2003, con un anno di ritardo e con una gran faticaccia mi diplomo come Perito elettrotecnico presso l’istituto tecnico della mia città. Scelta mai rinnegata ma alla quale nemmeno oggi saprei dare una spiegazione. Riconosco però che frequentare una scuola tanto esigente quanto selettiva senza avere nessunissimo interesse in nessunissima materia e con una percentuale di studenti maschi prossima al 90, qualcosa mi ha insegnato: tollerare la frustrazione rispetto la fatica, la demotivazione e al senso onnipresente di inadeguatezza (ma in adolescenza per chi non è così?); portare a termine un percorso per quanto ti disgusti; 1+1 fa 2 solo se usi il sistema decimale cosa che non è mai, MAI scontata.

Rispolvero quindi il mio antico sogno, e dopo un mirabolante test di ingresso durante il quale glisso su tutte le domande di grammatica e filosofia vengo ammessa alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Parma.

Gli anni dell’università dal punto di vista accademico iniziano in salita: non ho metodo di studio e mi sento sempre un po’ indietro rispetto ai miei colleghi freschi di liceo. Non mi scoraggio però, e a una vita sociale vivace da studentessa fuori sede, riesco a coniugare senza troppe difficoltà gli impegni universitari. Una volta acclimatata all’ambiente e alle sue logiche tutto scorre in modo molto semplice, senza intoppi ma senza nemmeno un coinvolgimento importante. Mi piace quello che studio ma non ho idea di cosa farò una volta laureata. Vedo i miei compagni di corso entusiasmarsi per certe materie, diventare assistenti, ambire alla carriera universitaria, scrivere tesi di grande qualità. Io no. L’università non mi interessa, il fascino istrionico dei docenti su di me non ha nessuna presa, non è così che intendo diventare. Conservo però ben saldo, in fondo al cuore il sogno mai appassito di fare la psicologa come intendevo da bambina, seduta su una sedia a parlare con la gente, a capire la gente e magari poter vivere di questo, la psicoterapeuta insomma, o la psicoanalista come inizio a fantasticare dopo gli esami di psicodinamica. Ma sembra tutto così lontano, così poco a fuoco. La crisi del 2008 è iniziata e io rimbalzo tra la psicologia del lavoro a quella dell’educazione a quella dello sviluppo senza mai appassionarmi a qualcosa. Mi piace, trovo tutto interessante (più degli impianti elettrici comunque), ma non mi tocca nel profondo, mi sento appena sfiorata. Parto per la Spagna per il mio primo Erasmus e poi, l’anno successivo torno nello stesso posto per il secondo. Per due anni faccio avanti e indietro da una bellissima città del sud della Spagna dove a tanta umidità si accompagna finalmente tanto calore.

Il primo anno seguo qualche corso a Scienze dell’educazione e qualche altro a Scienze del lavoro, tutto è bellissimo ma niente ancora mi convince. Il secondo anno invece mi stabilisco in pianta stabile a Scienze dell’educazione dove il mio compito da stagista è quello di fare lo screening di un numero infinito di questionari sull’abuso di droga. Entrambe le volte torno incredibilmente arricchita sul piano umano…su quello professionale ancora non so.

Solo di una cosa sono sempre più convinta cioè che la psicologia non possa essere il mero studio del “comportamento umano” come invece vorrebbe sostenere la prima domanda a risposta multipla del primo esame in spagnolo che sostengo. Infatti la sbaglio. Ma questo non fa altro che rinforzare la mia visione delle cose. Sono sicura che ci sia dell’altro, che non possiamo vedere ma che possiamo “sentire” e che va al di là dei nostri occhi e delle nostre orecchie. Qualcosa di invisibile ma essenziale (per parafrasare Antoine de Saint-Exupéry) che ha a che fare con la sostanza degli esseri umani al di là del manifesto. Tutti amiamo, soffriamo, ci divertiamo, proviamo apatia ma come ama, soffre, si diverte e che tipo di apatia prova ognuno di noi? Non è infondo vero che 1+1 non sempre fa 2? Inizio a chiedermi se è quello che sto cercando, qualcosa che dia delle risposte a ciò che sento.

Torno in Italia e mi laureo: tre mesi dopo aver conosciuto il mio compagno di vita, due mesi dopo la vittoria di mio padre sul linfoma e a tre mesi dal termine del mio tirocinio annuale post laurea (al tempo si poteva iniziare una volta terminati gli esami e in concomitanza alla stesura della tesi).

Con la laurea si conclude in qualche modo un periodo della mia vita; sono sempre stata una studentessa e ora non lo sono più. Devo fare qualcosa di me stessa, della mia laurea, della mia vita. E’ il 2011, il lavoro è poco, la concorrenza è tanta i soldi scarseggiano e non ho ancora un’idea chiara di ciò che voglio. Ho solo un sogno che ancora non mi concedo di iniziare a costruire.

Oggi, se mi guardo indietro ne capisco il motivo. Penso, ma al tempo dovevo ancora scoprirlo, che si trattasse di comprendere quanto estremamente bassa fosse la mia tolleranza alle brutture gratuite della vita, ai mezzi che non giustificano nessun fine, all’accontentarsi, all’odore stantio della pigrizia e della noia dell’intelletto. Ma per assumere questa visione come mia prima dovevo passarci attraverso, vivere la mia esperienza.

Per alcuni mesi quindi mi barcameno tra lavoretti di poco conto, umilianti e mortificanti, il cui pensiero spesso non mi fa dormire la notte e che rendono le miei giornate tristi e asfissianti. E’ quello che voglio fare? no grazie, mi rispondo. Ma dirselo è dura perchè nel bel mezzo della crisi economica concedersi di “scartare” delle possibilità appare più come un esercizio di vanità e presunzione che come un gesto di dovuta onestà nei confronti di se stessi.

In ogni caso, dopo aver trascorso mesi angoscianti sopraffatta dall’idea che nel mondo fossero rimasti solo posti brutti in cui stare, lascio perdere tutto e mi butto anima e corpo nella ricerca di una nuova occasione.

L”occasione si presenta nel giro di poco, un po’ per caso ma non certo per “fortuna”, nella forma di una “Casa di accoglienza notturna transitoria femminile”, un dormitorio cioè per donne in difficoltà, rifugiate politiche, donne senza fissa dimora o vittime di abusi. Il contratto è a progetto, non ho tutele di nessun tipo, i turni sono di 15 ore per 10 notti al mese, la paga basta appena per la sopravvivenza ma va benissimo. Sono sola ad ogni turno, posso usufruire di una camera privata per riposare (con un occhio aperto se non due) e soprattutto ho tutto il giorno per fare altro.

Salto a piè pari la descrizione di tutta la fase dell’attenta analisi delle scuole di specializzazione, dei modelli, degli orientamenti, dell’epistemologia, degli open day e tutto il resto che di solito si fa perchè semplicemente non c’è stato. Il tutto avviene rapidamente e senza quasi accorgermene un po’ come un salto nel vuoto: recupero il nome di una scuola di cui un collega mi aveva mostrato il sito anni prima che per qualche motivo mi aveva colpito. Nella dicitura c’erano due parole importanti Psicoanalisi (di cui sapevo poco ma abbastanza per sentire inequivocabilmente che quella era la direzione) e Relazione (di cui invece ero completamente digiuna) che in un futuro che ancora non conoscevo sarebbe diventato il mio strumento di lavoro più prezioso. Chiedo un paio di pareri veloci a persone di fiducia, valuto la distanza della sede dal mio lavoro e dalla mia abitazione e decido di fare domanda.

A luglio firmo il contratto di lavoro mentre ad agosto sto già svolgendo il secondo colloquio di ammissione alla scuola. Il mio futuro docente mi domanda “perchè lo vuoi fare?” io rispondo “temo che non sarei in grado di fare nient’altro”. Vengo ammessa.

Difficile spiegare gli anni successivi, ma ancora più difficile è trovare una sintesi di ciò che significa trovare il proprio percorso e seguirlo passo dopo passo ad ogni costo. Non avevo mai rinunciato a niente fino a quel momento e da lì in poi sceglievo di rinunciare quasi a tutto quello che ero stata e che mi piaceva fare. “Usciamo stasera?” mi chiedevano “no, perchè stasera lavoro”, “no, perchè domani ho scuola”, “no, perchè stasera lavoro e domani ho anche scuola”. Il tirocinio, le supervisioni, le equipe al lavoro, gli ultimi dell’anno passati in compagnia di suore e prostitute, le ore di sonno ridotte ai minimi termini, le lezioni bellissime, ricche ed entusiasmanti, il desiderio di sapere sempre di più e la spinta impellente nel provare a metterlo in pratica, la partita iva, lo studio condiviso, vedere il proprio compagno solo di sfuggita anche se si vive insieme, 8 anni di psicoanalisi (come paziente), chiedere ferie per scrivere le tesine di fine anno, tornare a scuola con la mia bambina tre settimane dopo il parto, le colleghe e i compagni di viaggio, la fatica che si trasforma in creatività, le cocenti delusioni, ma soprattutto la sensazione, così invadente e pervasiva, di essere nel posto giusto e di star facendo la cosa giusta.

Giusto e sbagliato non sono termini che amo usare perchè mi sembra che appartengano ad altri mondi che non sono i miei, alla giurisprudenza per esempio o alla religione. Detto ciò e consapevole di quanto siano relativi non ho mai smesso di pensare a me rispetto al mio percorso e alla scelta della mia professione in questi termini. Per le cose speciali è ammesso fare delle eccezioni.

Ho smesso da tempo di pensare che propormi agli altri come psicoterapeuta significhi mettere davanti a quello che sono quello che ho fatto, le qualifiche che ho preso, i risultati che ho ottenuto; tutto questo è innegabilmente importantissimo e se non avessi conseguito laura e specialità non basterebbe certo “essere” per lavorare. Ciò che intendo però dire è che quello che metto davvero in gioco nella mia professione non è il mio curriculum ma me stessa, con tutto ciò che questo comporta. Ed è forse questa l’unica cosa davvero importante che si dovrebbe sapere di me.