Domande e Risposte sulla Psicoterapia

Quali sono le obiezioni che più spesso si sente rivolgere uno psicoterapeuta? Quali sono i dubbi che vorremmo fossero chiariti prima di affidarci a uno specialista?

Benchè sia molto più comune rivolgersi a uno psicoterapeuta ora, di quanto lo fosse solo pochi anni fa, parecchie persone lamentano una scarsa informazione rispetto a questa figura, a tratti ancora avvolta in un fumoso mistero…

In questa sezione proverò a chiarire alcuni aspetti della psicoterapia in termini pratici e comprensibili tentando di rispondere ai dubbi e alle obiezioni più frequenti.

E’ una sezione in continua fase di aggiornamento…se avete qualche domanda da pormi scrivetelo pure nei commenti e sarò felice di rispondervi se potrò!

Buona lettura…

Io non ho bisogno dello psicologo! Faccio da me!

E’ vero. Probabilmente non hai bisogno dello psicologo e i tuoi problemi potrai risolverli da solo e forse ci stai già provando. Ma qual è la soluzione che hai trovato? E’ una vera soluzione o è il miglior compromesso tra te stesso e il tuo dolore? Le cose potrebbero andare diversamente o ti sei rassegnato perchè non vedi altre strade possibili intorno a te?

A nessuno piace soffrire e per trovare sollievo spesso ci troviamo a fare delle cose che nemmeno a noi stessi piacciono e che nella quasi totalità dei casi finiscono per farci stare peggio. Magari ci sentiamo oppressi ma non riusciamo a capire cosa ci opprima davvero, e allora iniziamo ad arrabbiarci senza apparente motivo con tutti per rivendicare la nostra libertà, ma il conflitto non è una dimensione facile da sostenere a lungo termine perchè infondo degli altri abbiamo bisogno. Oppure ci sentiamo così poco sicuri di noi da cercare costantemente l’approvazione dagli altri e quando non la otteniamo finiamo col sentirci ancora più piccoli e invisibili. Molto frequenti negli adolescenti sono gli agiti autolesivi, come l’abuso di alcol e sostante, il sesso promiscuo, la rinuncia agli studi come tentativo di trovare un significato per sè stessi nel mondo. O nei giovani adulti l’inaffrontabile ansia per il futuro imminente, che si esplicita per esempio in percorsi accademici interminabili e accidentati, l’eterna convivenza con i genitori e la difficoltà nell’instaurare relazioni sentimentali davvero significative.

Tutte queste sono soluzioni che mettiamo in atto nel tentativo di rendere la nostra sofferenza più tollerabile ma che in realtà, molto spesso, finiscono per diventare parte integrante del problema. E quando le soluzioni che abbiamo adottato fino a quel momento non vanno più bene è possibile sentirsi come se tutto sfuggisse di mano.

Siamo abituati e forse spesso indotti a pensare che il vero problema sia il sintomo quando la realtà è molto più complessa: non è forse il sintomo stesso la soluzione che abbiamo trovato per noi stessi?

Non ci domandiamo quasi mai: “ma che significato ha questo sintomo per me?”, perchè tutta la nostra energia è concentrata sul cercare di eliminarlo, di cancellare dalla nostra vita quella cosa che ci fa stare tanto male, ma non ci rendiamo quasi mai conto che la nostra stessa vita si regge su quel sintomo che rappresenta in qualche modo una soluzione per noi.

E’ allora probabile che tu non abbia bisogno di uno psicologo perchè risolva i tuoi problemi. Questa è una cosa che stai già tentando di fare a modo tuo.

E’ un luogo comune pensare che lo psicoterapeuta risolva i problemi a chi non è capace di farlo da sè. Purtoppo (o per fortuna) nessuno al mondo è in grado di cambiare la tua vita se non tu!

Quello che un terapeuta potrà fare per te, sarà accompagnarti in un percorso di scoperta di te stesso, di comprensione profonda di quello che ti sta capitando e perchè proprio a te. Senza giudizio. La psicoterapia ti aiuterà a scoprire parti di te inesplorate che potranno arricchire il modo con cui vedi e interpreti te stesso e il mondo. La psicoterapia è un’esperienza unica per ognuno di noi e per te può fare tanto se darai una possibilità a te stesso di prenderti cura del tuo dolore.

Non ho bisogno di andare in terapia, se ho bisogno di parlare mi bastano gli amici/la famiglia/il mio compagno…

Spesso si sente dire “un chirurgo non può operare i propri famigliari”.

Non so se sia un assunto vero in assoluto, ma al di là veridicità o meno dell’affermazione, la maggioranza di noi la trova assolutamente ragionevole.

Inoltre fornisce una metafora interessante su cui riflettere.

Il motivo per cui un chirurgo non potrebbe operare un suo caro è intuitivo e riguarda aspetti di natura emotiva e quindi strettamente e universalmente umani; riguarda, intesa in termini molto semplici, tutti quei risvolti e implicazioni emotive che lo stare in relazione con l’altro che amiamo producono. E’ un livello profondo dell’animo umano, a tratti irrazionale e contraddittorio ma che ci spinge inevitabilmente verso l’altro.

Immaginiamo che il figlio del chirurgo abbia un incidente e che debba essere operato di urgenza. Il chirurgo si occupa di questo genere di casi tutti i giorni, è un buon dottore, competente, scrupoloso e ha nervi saldi. Ora però si trova davanti a una situazione inaspettata, il proprio figlio è ferito e in pericolo di vita. Presumibilmente il chirurgo potrà sentirsi disperato, terrorizzato dall’idea di perdere il figlio, potrà provare una gamma infinita di sentimenti che vanno dalla speranza all’incredulità, sentimenti talmente intensi e disturbanti da impedirgli di pensare ad altro che non sia il suo essere padre e a ciò che rappresenta per lui quel figlio che è inconcepibile pensare di perdere. Quando si ama qualcuno vogliamo proteggerlo, preservarlo dal dolore, conservare la relazione che abbiamo con lui e dalla quale noi stessi dipendiamo. La posta in gioco è altissima, troppo alta, ed è probabile che sarà qualcun altro a operare il ragazzo. Qualcuno che pur riconoscendo il valore della vita non intrattiene con quello specifico essere umano una relazione di natura diversa da quella medico-paziente.

Gli esseri umani normalmente intrattengono numerose relazioni significative con altri esseri umani, da queste relazioni dipende non solo la sopravvivenza stessa dell’uomo ma anche il modo in cui egli stesso si percepisce. Più queste relazioni sono intense e significative più tendiamo a proteggerle e preservarle perchè costituiscono il nostro mondo.

Quando diciamo che un chirurgo non può operare un proprio caro è perchè tendiamo a immedesimarci con l’uomo-padre e non con l’uomo-medico. Sappiamo e sentiamo nel profondo di noi stessi che un padre sarebbe drammaticamente sconvolto nel vedere il proprio figlio gravemente ferito e che questo aspetto emotivo sarebbe talmente perturbante da rendere di fatto impossibile curarlo, nonostante abbia le competenze per farlo.

La metafora del chirurgo è una metafora potente perchè ci mette faccia a faccia con tutti quegli aspetti emotivi che vengono sollecitati dallo stare in relazione con l’altro che amiamo ma che nonostante ciò soffre.

In ambito psicologico le cose sono però un po’ diverse. Chiunque incontriamo può avere effetti terapeutici per noi e per la nostra sofferenza, chiunque può essere un “buon chirurgo”. Sentire di avere una buona rete sociale intorno a noi rappresenta uno degli indicatori primari per ciò che riguarda la nostra salute psicologica. Le relazioni sociali di buona qualità e “giusta” quantità sono una risorsa importante per il benessere dell’individuo nella sua globalità.

Sappiamo anche però, che per quanto lo stare in relazione con l’altro ci permetta di fatto di sopravvivere, le cose che riguardano gli essere umani non sono mai semplici.

Siccome noi dipendiamo dagli altri proprio come gli altri dipendono da noi e siccome i legami che ci uniscono sono emotivamente carichi, a volte troviamo qualche difficoltà quando ci troviamo ad aiutare o ad essere aiutati.

Ora pensiamo a tutte le volte che abbiamo confidato i nostri problemi a un amico. Forse in primo luogo ci verranno in mente quelle volte in cui non l’abbiamo fatto: non volevamo farlo preoccupare? avevamo timore che potesse cambiare la sua idea su di noi? abbiamo ritenuto che potessimo farcela da soli?

Altre volte invece, l’abbiamo fatto, abbiamo parlato con qualcuno cercando negli altri una risposta che avvertivamo non potesse essere trovata in noi. Forse abbiamo ricevuto validi consigli per tamponare una situazione che sembrava senza via di uscita, visioni diverse con cui confrontarsi, del conforto o semplicemente un abbraccio che per un momento ha spazzato via la solitudine ecc. ecc.

Ci è capitato, però, anche di sentirci confusi rispetto le risposte alle nostre richieste di aiuto. Ci è capitato che un consiglio non fosse sufficiente, che non lo sentissimo nostro pur riconoscendo le buoni intenzioni del nostro interlocutore, che ci sentissimo non totalmente compresi, che con vergogna ci rendessimo conto che il conforto e l’affetto non bastavano a sanare un dolore profondo, perchè ciò di cui avevamo davvero bisogno era di comprenderlo.

Non è raro che la situazione analitica conduca a riflessioni nuove, sorprendenti e di natura qualitativamente diversa a quelle a cui il paziente è abituato a ricevere dal suo contesto di vita. Esclamazioni del tipo “mio marito mi ha sempre detto che gli altri mi trattano così perchè sono invidiosi…ma questa spiegazione non mi ha mai convinta fino infondo, ora so che c’è dell’altro” oppure ” i miei amici mi dicono che non riesco a impormi sulle cose per me importanti perchè sono troppo buono, ma ormai non ne parlo nemmeno più…questa risposta mi fa sentire ancora più frustrato” sono decisamente frequenti.

Non si tratta di risposte che sminuiscono il dolore dell’altro, anche se saremmo tentati di pensarlo, ma di risposte che cercano di salvare l’altro e salvare se stessi allo stesso tempo. La donna “invidiata” è probabilmente una donna che agli occhi del marito appare forte, sicura e di successo ed è probabilmente così che il marito ha bisogno di continuare a vederla (per ragioni complesse che non è possibile esaurire in questa sede). Il ragazzo “troppo buono” potrebbe essere una persona su cui è sempre possibile fare affidamento, una persona sensibile, disponibile e generosa, una vera risorsa per chi gli sta vicino, ma che può continuare ad essere questo per gli altri solo se si lasciano da parte tutti quegli aspetti che non si accordano con questo tipo di immagine “sociale”, perchè “se non sono quello che gli altri vedono di me, io cosa sono?”.

Questo significa che parlare a uno “sconosciuto” dei tuoi problemi permette di arginare tutti quegli aspetti che sono veicolati dal legame emotivo con gli altri. Non che un terapeuta non provi sentimenti nei confronti dei suoi pazienti, questo è inevitabile, ma sa come maneggiarli e renderli validi strumenti per il lavoro psicologico. Il terapeuta è paragonabile al secondo chirurgo di qui sopra, quello che riconosce il valore della vita umana ma non ha col suo paziente un legame che sia diverso da quello professionale.

A volte quando sembra che nessuno ci voglia capire è perchè nessuno del nostro contesto sociale può davvero farlo. O si è troppo o troppo poco coinvolti, e il nostro dolore fa paura in entrambi i casi. Si è troppo vicini o troppo lontani e in entrambi i casi mettere a fuoco certi aspetti di noi stessi e degli altri diventa impresa ardua.

Io sono fatto così, non posso cambiare/le persone non possono cambiare/nessuno può cambiare un’altra persona!

Una delle obiezioni che più di frequente vengono mosse ai terapeuti deriva da un certo scetticismo nei confronti della possibilità che le persone possano davvero cambiare: “Io sono fatto così e non posso cambiare, nessuno può cambiarmi, nessuno può cambiare”.

In effetti siamo abituati a pensare a noi stessi e agli altri come a individui dotati di tratti caratteriali specifici e stabili nel tempo. Conosciamo tutti proverbi del tipo “il lupo perde il pelo ma non il vizio” oppure “chi nasce tondo non muore quadrato”, che sottolineano quanto sia credenza comune che le persone in fondo siano destinate a vivere come ostaggi di loro stesse. Ma se quello che siamo non può essere modificato allora non ci aspetta altro che una vita di rassegnazione al nostro dolore…

In realtà basterebbe pensare a un semplice ma innegabile dato di fatto per confutare questo luogo comune e cioè…che siamo esseri VIVENTI. E vivere significa mutare, trasformarsi di giorno in giorno in altro di diverso. Tagliamo o ci facciamo crescere i capelli, invecchiamo, impariamo una nuova lingua o la tabellina del 9, diventiamo genitori, cambiamo lavoro, casa e amici, ci laureiamo, parliamo con la gente, viaggiamo, sogniamo, ci innamoriamo, ingrassiamo, facciamo sesso, ci poniamo delle domande su noi stessi e sul mondo. Non ci si può sottrarre alla vita. Ogni cosa, anche la più infinitesimamente piccola o apparentemente irrilevante esperienza incide su ciò che siamo e sul nostro modo di intendere noi stessi e il mondo.

Ma se tutto questo è vero, se come esseri viventi siamo concepiti come intrinsecamente mutanti, allora perchè a volte abbiamo la sensazione che nulla cambi mai nè in noi stessi nè negli altri? Perchè ci capita di sentirci intrappolati in una vita sempre uguale che non ci soddisfa, in relazioni sempre uguali che ci fanno soffrire, in un dolore antico e mono-tono?

Per provare a sbrogliare la questione è necessario partire da un assunto di base: se da una parte è vero che come esseri viventi siamo in continua e costante trasformazione, dall’altra è altrettanto vero che restiamo sempre noi stessi durante tutto l’arco della nostra vita. Ciò che è inscritto nel dna non è modificabile, non possiamo scegliere i nostri genitori o il nostro sesso, così come non possiamo scegliere tutto ciò che ci verrà consegnato come bagaglio di tradizione al momento della nascita (paese di origine, lingua, estrazione socio culturale, disponibilità economica ecc ecc). Tutto questo ci è stato dato ed è così che siamo venuti al mondo, non l’abbiamo deciso ed è quello che siamo e che saremo finchè saremo in vita. Tutto ciò però non ci rende in qualche modo “predestinati” a una vita scelta per noi da altri (o dal caso) perchè ciò che è in nostro potere sta nelle particolari modalità secondo le quali decideremo come spendere il nostro unico e irripetibile potenziale umano nel mondo.

Potremmo riassumere quanto appena detto con una domanda: “cosa ne stiamo facendo di quello che siamo?”. Se non rispondiamo prima a questo quesito sarà difficile, forse impossibile, comprendere ciò che vogliamo davvero ed innescare un processo trasformativo di noi stessi che sia davvero edificante.

Qui sta il punto: ciò che possiamo cambiare non è tanto “come siamo” ma l’esperienza che facciamo di noi stessi. Se i lunghi capelli si trasformano in dread lock poco importa dal punto di vista meramente estetico, ciò che importa e sarebbe interessante indagare è perchè la ragazza carina e timida del liceo classico tutta spille e cerchietti ora è una giovane donna che frequenta assiduamente i centri sociali in compagnia di un cane. Cos’ha rappresentato questo cambio di look per lei e per chi le sta intorno? Quale messaggio mandano i suoi capelli per il semplice fatto di essere acconciati in un modo invece che in un altro? O l’adolescente mingherlino che d’un tratto dedica ogni sua energia alla palestra e a potenziare il proprio fisico, cosa significa per lui , giovane uomo, quella nuova forza e quel nuovo aspetto?

Tornando a un discorso prettamente psicoterapeutico è esperienza comune (nel paziente quanto nel terapeuta) che in genere il terapeuta venga contattato da qualcuno che soffre tanto per qualche ragione e che più o meno implicitamente si aspetta di scoprire che questa cosa possa essere modificata.

A volte si riferisce il proprio star male a una condizione esterna o a un particolare evento (“sono stato bocciato”, “mio marito mi ha lasciata per un’altra”, “non trovo lavoro” ecc ecc), altre volte lo si riconduce all’interno e quindi a qualche nostra caratteristica (“non riesco mai a interessarmi a niente”, “faccio fatica a stare con gli altri perchè non sono divertente”, “sono sempre triste e demotivato” ecc ecc). Con molta probabilità è un disagio che si avverte su entrambi i livelli.

Comunque sia, quando ci si rivolge a uno psicoterapeuta è perchè si sente che qualcosa non va e si ha la speranza che questo stato possa cambiare in modo per noi vantaggioso.

L’obiezione viene posta a questo punto “ma è davvero possibile che le cose cambino e che questo avvenga -solo parlando- con qualcuno?”. La risposta è SÌ. E questo è possibile proprio per il fatto che la psicoterapia si configura come uno spazio di esperienza di sè. Di esperienza nuova ed estremamente significativa di sè!

La psicoterapia è questo che di fatto si pone come obiettivo, quello di aiutare il paziente ad acquisire una nuova consapevolezza rispetto a ciò che è e a ciò che sta facendo di sè, attraverso l’esperienza che si basa sulla relazione col terapeuta.

Ed è una relazione che ha come fine ultimo una comprensione più piena e libera di sè, dell’altro e del mondo. Perchè è questo ciò che può cambiare e che può fare una significativa differenza cioè il modo in cui si guarda a sè e alle cose del mondo.

E’ un processo talvolta difficile e tortuoso che può condurre però alla consapevolezza di avere potere su ciò che siamo e su quanto accade intorno a noi. Un potere doloroso che forse non ci aspettavamo e che forse nemmeno volevamo ma che in fondo ci può far sentire nuovamente vivi.

Non ho bisogno di andare in terapia, se ho bisogno di parlare mi bastano gli amici/la famiglia/il mio compagno…

Spesso si sente dire “un chirurgo non può operare i propri famigliari”.

Non so se sia un assunto vero in assoluto, ma al di là della veridicità o meno dell’affermazione, la maggioranza di noi la trova assolutamente ragionevole.

Inoltre fornisce una metafora interessante su cui riflettere.

Il motivo per cui un chirurgo non potrebbe operare un suo caro è intuitivo e riguarda aspetti di natura emotiva e quindi strettamente e universalmente umani; riguarda, intesa in termini molto semplici, tutti quei risvolti e implicazioni emotive che lo stare in relazione con l’altro che amiamo producono. E’ un livello profondo dell’animo umano, a tratti irrazionale e contraddittorio ma che ci spinge inevitabilmente verso l’altro.

Immaginiamo che il figlio del chirurgo abbia un incidente e che debba essere operato di urgenza. Il chirurgo si occupa di questo genere di casi tutti i giorni, è un buon dottore, competente, scrupoloso e ha nervi saldi. Ora però si trova davanti a una situazione inaspettata, il proprio figlio è ferito e in pericolo di vita. Presumibilmente il chirurgo potrà sentirsi disperato, terrorizzato dall’idea di perdere il figlio, potrà provare una gamma infinita di sentimenti che vanno dalla speranza all’incredulità, sentimenti talmente intensi e disturbanti da impedirgli di pensare ad altro che non sia il suo essere padre e a ciò che rappresenta per lui quel figlio che è inconcepibile pensare di perdere. Quando si ama qualcuno vogliamo proteggerlo, preservarlo dal dolore, conservare la relazione che abbiamo con lui e dalla quale noi stessi dipendiamo. La posta in gioco è altissima, troppo alta, ed è probabile che sarà qualcun altro a operare il ragazzo. Qualcuno che pur riconoscendo il valore della vita non intrattiene con quello specifico essere umano una relazione di natura diversa da quella medico-paziente.

Gli esseri umani normalmente intrattengono numerose relazioni significative con altri esseri umani, da queste relazioni dipende non solo la sopravvivenza stessa dell’uomo ma anche il modo in cui egli stesso si percepisce. Più queste relazioni sono intense e significative più tendiamo a proteggerle e preservarle perchè costituiscono il nostro mondo.

Quando diciamo che un chirurgo non può operare un proprio caro è perchè tendiamo a immedesimarci con l’uomo-padre e non con l’uomo-medico. Sappiamo e sentiamo nel profondo di noi stessi che un padre sarebbe drammaticamente sconvolto nel vedere il proprio figlio gravemente ferito e che questo aspetto emotivo sarebbe talmente perturbante da rendere di fatto impossibile curarlo, nonostante abbia le competenze per farlo.

La metafora del chirurgo è una metafora potente perchè ci mette faccia a faccia con tutti quegli aspetti emotivi che vengono sollecitati dallo stare in relazione con l’altro che amiamo ma che nonostante ciò soffre.

In ambito psicologico le cose sono però un po’ diverse. Chiunque incontriamo può avere effetti terapeutici per noi e per la nostra sofferenza, chiunque può essere un “buon chirurgo”. Sentire di avere una buona rete sociale intorno a noi rappresenta uno degli indicatori primari per ciò che riguarda la nostra salute psicologica. Le relazioni sociali di buona qualità e “giusta” quantità sono una risorsa importante per il benessere dell’individuo nella sua globalità.

Sappiamo anche però, che per quanto lo stare in relazione con l’altro ci permetta di fatto di sopravvivere, le cose che riguardano gli essere umani non sono mai semplici.

Siccome noi dipendiamo dagli altri proprio come gli altri dipendono da noi e siccome i legami che ci uniscono sono emotivamente carichi, a volte troviamo qualche difficoltà quando ci troviamo ad aiutare o ad essere aiutati.

Ora pensiamo a tutte le volte che abbiamo confidato i nostri problemi a un amico. Forse in primo luogo ci verranno in mente quelle volte in cui non l’abbiamo fatto: non volevamo farlo preoccupare? avevamo timore che potesse cambiare la sua idea su di noi? abbiamo ritenuto che potessimo farcela da soli?

Altre volte invece, l’abbiamo fatto, abbiamo parlato con qualcuno cercando negli altri una risposta che avvertivamo non potesse essere trovata in noi. Forse abbiamo ricevuto validi consigli per tamponare una situazione che sembrava senza via di uscita, visioni diverse con cui confrontarsi, del conforto o semplicemente un abbraccio che per un momento ha spazzato via la solitudine ecc. ecc.

Ci è capitato, però, anche di sentirci confusi rispetto le risposte alle nostre richieste di aiuto. Ci è capitato che un consiglio non fosse sufficiente, che non lo sentissimo nostro pur riconoscendo le buoni intenzioni del nostro interlocutore, che ci sentissimo non totalmente compresi, che con vergogna ci rendessimo conto che il conforto e l’affetto non bastavano a sanare un dolore profondo, perchè ciò di cui avevamo davvero bisogno era di comprenderlo.

Non è raro che la situazione analitica conduca a riflessioni nuove, sorprendenti e di natura qualitativamente diversa a quelle a cui il paziente è abituato a ricevere dal suo contesto di vita. Esclamazioni del tipo “mio marito mi ha sempre detto che gli altri mi trattano così perchè sono invidiosi…ma questa spiegazione non mi ha mai convinta fino infondo, ora so che c’è dell’altro” oppure ” i miei amici mi dicono che non riesco a impormi sulle cose per me importanti perchè sono troppo buono, ma ormai non ne parlo nemmeno più…questa risposta mi fa sentire ancora più frustrato” sono decisamente frequenti.

Non si tratta di risposte che sminuiscono il dolore dell’altro, anche se saremmo tentati di pensarlo, ma di risposte che cercano di salvare l’altro e salvare se stessi allo stesso tempo. La donna “invidiata” è probabilmente una donna che agli occhi del marito appare forte, sicura e di successo ed è probabilmente così che il marito ha bisogno di continuare a vederla (per ragioni complesse che non è possibile esaurire in questa sede). Il ragazzo “troppo buono” potrebbe essere una persona su cui è sempre possibile fare affidamento, una persona sensibile, disponibile e generosa, una vera risorsa per chi gli sta vicino, ma che può continuare ad essere questo per gli altri solo se si lasciano da parte tutti quegli aspetti che non si accordano con questo tipo di immagine “sociale”, perchè “se non sono quello che gli altri vedono di me, io cosa sono?”.

Questo significa che parlare a uno “sconosciuto” dei tuoi problemi permette di arginare tutti quegli aspetti che sono veicolati dal legame emotivo con gli altri. Non che un terapeuta non provi sentimenti nei confronti dei suoi pazienti, questo è inevitabile, ma sa come maneggiarli e renderli validi strumenti per il lavoro psicologico. Il terapeuta è paragonabile al secondo chirurgo di qui sopra, quello che riconosce il valore della vita umana ma non ha col suo paziente un legame che sia diverso da quello professionale.

A volte quando sembra che nessuno ci voglia capire è perchè nessuno del nostro contesto sociale può davvero farlo. O si è troppo o troppo poco coinvolti, e il nostro dolore fa paura in entrambi i casi. Si è troppo vicini o troppo lontani e in entrambi i casi mettere a fuoco certi aspetti di noi stessi e degli altri diventa impresa ardua.

E’ un’emergenza…anzi no!

Chi di mestiere fa lo psicoterapeuta sa bene quanto i periodi più caldi durante i quali le telefonate e le richieste di appuntamento si intensificano sensibilmente siano cadenzati da date abbastanza precise. L’estate, il Natale e in generale tutte le festività, ma anche i weekend, rappresentano momenti “particolari” nella vita di ognuno di noi. Non è raro che qualcuno chiami o mandi un messaggio per prendere contatti di sabato o domenica, ben sapendo che generalmente i professionisti lavorano durante i giorni feriali.

Quelli citati sono momenti durante i quali, almeno per l’idea che mi sono fatta negli anni, la probabilità che una serie di riflessioni più o meno consapevoli su se stessi venga sollecitata aumenta.

Essi rappresentano una discontinuità nella normale routine quotidiana. Offrono una pausa: qualche giorno di ferie lavorative, la fine di una sessione di esami, un weekend di pioggia…

E talvolta è proprio durante queste “parentesi” di vita che alcuni dei pensieri che fin lì eravamo riusciti ad eludere tanto presi dal “fare altro” riemergono con (pre)potenza facendosi più pressanti ed inevitabili: “perchè sono stata/o ancora lasciata/o dalla persona che amavo?”, “perchè non ho amici con cui andare in vacanza?”, “perchè tutti sembrano avere successo e portare avanti una vita piena di soddisfazioni e io mi sento arenato in un’esistenza senza obiettivi e senso?”, “perchè il tanto, il troppo, il tutto che ho è così simile al niente?”, “perchè mi sento così tanto diverso da tutti quelli che mi circondano?”, “cosa c’è in me che non va?”.

Non è raro che le persone decidano di rivolgersi a un terapeuta proprio mentre sono presi dal farsi più o meno consapevolmente queste dolorose domande. Se fino a poco prima, il venerdì, il 23 dicembre, il giorno prima delle ferie, un certo disagio benchè presente poteva essere tollerato, ignorato e messo da parte, arriva un momento in cui tutte le strategie messe in atto per non fare i conti con esso si rivelano inefficaci, e non di rado questo avviene proprio quando si ha la possibilità di prendersi una pausa.

Chiaramente quanto detto non corrisponde a ciò che avviene nella totalità dei casi, ma ne rappresenta senza dubbio una fetta significativa.

Un’altra considerazione: è evidente che quando qualcuno si attiva per chiedere aiuto durante una “fase acuta” di sofferenza la domanda stessa assuma carattere di urgenza, cioè “sto male adesso, ho bisogno adesso, aiutami adesso!”.

Ci sono altre questioni però che spingono le persone a rivolgersi a uno psicoterapeuta con tanta urgenza ed emergenza, e che in parte sono sovrapponibili e in parte complementari a quanto detto fino a qui. Quando la vita ci pone di fronte a eventi che facciamo fatica ad elaborare siano essi drammatici (come una separazione o un lutto) o ricercati (come la nascita di un figlio o un nuovo lavoro di maggior responsabilità), può capitare che riuscire a mettere a fuoco quanto tutto ciò possa risultare destabilizzante non sia così scontato. Forse ci accorgiamo che qualcosa non va, ci turba, ma è un brusio di sottofondo che riusciamo bene o male a tenere a bada con le più svariate strategie (che in altra sede, talvolta, potremo chiamare “sintomi”, ma è un altro discorso…), finchè non ci fermiamo (o succede qualcosa che ci costringe a farlo) e allora il brusio diventa un rumore assordante che deve essere spento.

Gli psicoterapeuti sanno bene quanto siano insidiose le richieste che presentano queste caratteristiche, quanto ambivalente sia la natura della domanda e quanto siano complesse le aspettative di chi chiede aiuto di impulso, nel tentativo di sanare un’angoscia tanto travolgente quanto, illusoriamente, dimenticabile. Illusoriamente, già, perchè spesso è questo a cui vogliamo credere ed è così che ci convinciamo che forse stiamo meglio, che era solo un momento, che le cose non vanno poi così male OGGI, e forzatamente cerchiamo di ridimensionare il dolore di IERI

Succede così che gli appuntamenti vengano presi sull’onda di un’urgenza implacabile e poi vengano disdetti o persino disertati senza preavviso. Una volta una collega mi raccontò di essere stata contattata da un uomo che da lì a poco si sarebbe dovuto trasferire in Canada per motivi lavorativi e che aveva assoluta ed estrema necessità di chiarire alcune cose prima di trasferirsi…ovviamente non andò all’appuntamento.

A conclusione di questa lunga premessa è importante chiarire una cosa: quando si parla di esseri umani è importante tenere a mente sempre una certa complessità. Se è vero che la vita ci mette davanti a numerosi ostacoli che possono profondamente perturbare il nostro equilibrio, è anche vero che ciò che mettiamo in atto per far fronte a questi eventi dipende da come siamo fatti, da come la nostra personalità e identità si è costituita nel corso della nostra esistenza e dall’elaborazione che abbiamo fatto di ogni singola esperienza. In sintesi è probabile che per reagire a ciò che ci succede, indipendentemente dalla sfida che ci troviamo ad affrontare, facciamo ricorso a determinate risorse interne, perchè così abbiamo sempre fatto e perchè così abbiamo imparato a fare. Il miglior compromesso tra noi e il mondo.

E’ possibile che per buona parte della nostra vita queste strategie possano funzionare. Può succedere però che a un certo punto esse non risultino più funzionali, o almeno non abbastanza.

Per esempio (semplificando all’osso), se siamo abituati ad evitare le situazioni conflittuali convinti che così la nostra vita sarà più semplice, è possibile che riusciremo a mettere in atto questa modalità difensiva ogni volta che penseremo sia necessario, ed è anche probabile che essa funzionerà per i nostri fini. Forse essa avrà dei costi, ma probabilmente li avvertiremo come accettabili rispetto ai vantaggi. Saremo quelli con un buon carattere, pacifici, forse gli altri si faranno un’idea di noi coerente con ciò che pensiamo di noi stessi e questo ci gratificherà.

Ma cosa succederebbe se all’improvviso, sul posto di lavoro, il nostro capo che ormai conosciamo da anni e col quale abbiamo instaurato una relazione sufficientemente serena e conciliante, venisse sostituito da un responsabile aggressivo e tiranno?

Probabilmente dopo aver valutato la situazione come potenzialmente minacciosa e perturbante faremmo ricorso alla strategia con cui abbiamo più confidenza cioè l’evitamento. Ovviamente la realtà ci mette costantemente di fronte a dei limiti oggettivi ed evitare il confronto con il proprio capo può essere una posizione sostenibile solo se non siamo preoccupati da un possibile licenziamento. Quindi con molta probabilità non tenderemo tanto ad evitare la persona quanto il conflitto in sè mantenendo una certa passività nella relazione con l’intento di disinnescare la minaccia.

Ma quali costi in termini psicologici può comportare una dinamica di questo tipo protratta nel tempo? Non mi soffermerò su questo perchè è evidente. Ognuno di noi è in grado di immedesimarsi in questa situazione e probabilmente molti ne avranno fatto esperienza diretta. Quello che è importante sottolineare è come si agisca sempre per ciò che si è e per come abbiamo imparato ad essere.

Succede così che è proprio durante una domenica pomeriggio mentre attendiamo irrequieti che il weekend finisca pensando alla lunga settimana di umiliazioni, straordinari non pagati, pretese irragionevoli ecc ecc che ci si prospetta davanti, che avvertiamo l’angoscia come totalizzante e paralizzante e decidiamo finalmente che ci serve aiuto.

Durante la settimana siamo impegnati a sopravvivere, tutta la nostra energia si concentra su quell’obiettivo. Ma è quando ci si ferma che l’urgenza si esplicita in tutta la sua chiarezza.

Riprendendo l’esempio appena fatto questa persona potrebbe rivolgersi al terapeuta sull’onda di un impulso del tipo “non riesco più a sostenere l’ansia e l’angoscia che mi sta causando il mio capo, sono arrivato al limite e rischio di esplodere”. L’urgenza è questa ed è evidente. E’ anche probabile che la stessa persona riferisca un quadro di questo genere “sono sempre stato bene ma da quando è arrivato il nuovo capo la mia vita è un inferno, non riesco più a dormire la notte, sono sempre in ansia e sono costantemente preoccupato di fare qualcosa che lo possa fare infuriare, la causa delle mie sofferenze è lui”.

Dunque, senza nulla togliere al dato oggettivo siccome è in effetti molto probabile che il capo abbia davvero un brutto carattere, ciò che è davvero necessario è comprendere come il soggetto viva questa esperienza e quali risorse metta in campo.

Ci sono quindi due aspetti: il primo è il presentarsi di una situazione nuova ed effettivamente perturbante, il secondo è ciò che noi facciamo per tentare di farvi fronte e questo, come si è detto, dipende da come siamo.

Se tutti noi abbiamo un nostro caratteristico funzionamento secondo il quale agiamo nel mondo e sul mondo, in generale essere in grado di rispondere in modo sufficientemente flessibile e adattivo alle difficoltà della vita può metterci in un certo senso al riparo da forme di sofferenza paralizzanti. Gravi difficoltà nascono, al contrario, dall’irrigidimento delle risposte che tentiamo di riproporre anche quando, davanti ad ogni evidenza, non risultano efficaci perchè così abbiamo sempre fatto senza riuscire a prendere in considerazione delle alternative.

In questo senso l’emergenza in corso è solo la punta dell’iceberg dato che è molto probabile che chi tende a mettere in atto strategie molto rigide di fronte agli eventi della vita lamenti una certa ricorsività nelle risposte che l’ambiente gli fornisce.

Il lavoratore perseguitato dal capo tiranno potrebbe nel corso della terapia riferire di essersi sempre sentito un po’ preso di mira o riportare la netta sensazione che tutti si siano sempre un po’ approfittati del suo buon carattere, di non essere mai riuscito a far carriera per la poca capacità di imporsi, di essersi sentito impotente davanti a certe situazioni…e che tutto ciò nel corso della vita sia stata fonte di sofferenza e frustrazione.

Ne consegue che il vero problema (benchè non mi piaccia parlare di “problema”) non stia tanto nelle modalità vessatorie del nuovo capo, che pur rappresentano una difficoltà bene o male oggettiva, quanto nel procede in modo automatico ad applicare in modo difensivo la strategia che meglio conosciamo e che sin qui aveva dato risultati sufficientemente buoni seppure a un certo prezzo.

Non è raro dopo un po’ di tempo (e tanta fatica) accorgersi con stupore che ciò che ci fa soffrire tanto non è all’esterno, ma sta proprio nel nostro modo di rispondere a ciò che ci succede. E’ un percorso complesso e difficile ma che in molti casi conduce a una grande scoperta, cioè che sia possibile fare qualcosa per se stessi.

Certo, molte volte la bufera passa da sola, o ci si racconta che sia passata, e allora all’appuntamento con il terapeuta non si va, altre volte la domenica si trasforma in lunedì e ci si ributta a testa bassa nella propria routine

Per concludere si può dire che la psicoanalisi non agisca sull’urgenza in senso stretto in quanto si configura come processo di comprensione di sè che necessita di un fattore importante cioè il tempo. Non è ovviamente l’unico modo di approcciarsi alla questione, ne esistono altri e questa è solo una possibilità tra le varie che però ha la peculiarità di inquadrare il momento attuale di crisi all’interno di un sistema più complesso che viene man mano esplicitandosi attraverso delle riflessioni. “Perchè a te?”, “perchè ora?”, “perchè così e in non in un altro modo?”…. . Questo non significa che già dai primi colloqui non si possa riscontrare un sollievo significativo, ma per potere incidere davvero sulla nostra esistenza, qualsiasi essa sia e qualsiasi sia la situazione che dobbiamo affrontare è necessario che si possa lavorare insieme sulla comprensione globale di noi stessi. D’altra parte la realtà non cambierà, il nostro capo non cambierà lavoro solo per semplificarci la vita…questo è un compito che spetta a noi.

Io non ho bisogno dello psicologo! I miei problemi li risolvo da solo!

E’ vero. Probabilmente non hai bisogno dello psicologo e i tuoi problemi potrai risolverli da solo e forse ci stai già provando. Ma qual è la soluzione che hai trovato? E’ una vera soluzione o è il miglior compromesso tra te stesso e il tuo dolore? Le cose potrebbero andare diversamente o ti sei rassegnato perchè non vedi altre strade possibili intorno a te?

A nessuno piace soffrire e per trovare sollievo spesso ci troviamo a fare delle cose che nemmeno a noi stessi piacciono e che nella quasi totalità dei casi finiscono per farci stare peggio. Magari ci sentiamo oppressi ma non riusciamo a capire cosa ci opprima davvero, e allora iniziamo ad arrabbiarci senza apparente motivo con tutti per rivendicare la nostra libertà, ma il conflitto non è una dimensione facile da sostenere a lungo termine perchè infondo degli altri abbiamo bisogno. Oppure ci sentiamo così poco sicuri di noi da cercare costantemente l’approvazione dagli altri e quando non la otteniamo finiamo col sentirci ancora più piccoli e invisibili. Molto frequenti negli adolescenti sono gli agiti autolesivi, come l’abuso di alcol e sostante, il sesso promiscuo, la rinuncia agli studi come tentativo di trovare un significato per sè stessi nel mondo. O nei giovani adulti l’inaffrontabile ansia per il futuro imminente, che si esplicita per esempio in percorsi accademici interminabili e accidentati, l’eterna convivenza con i genitori e la difficoltà nell’instaurare relazioni sentimentali davvero significative.

Tutte queste sono soluzioni che mettiamo in atto nel tentativo di rendere la nostra sofferenza più tollerabile ma che in realtà, molto spesso, finiscono per diventare parte integrante del problema. E quando le soluzioni che abbiamo adottato fino a quel momento non vanno più bene è possibile sentirsi come se tutto sfuggisse di mano.

Siamo abituati e forse spesso indotti a pensare che il vero problema sia il sintomo quando la realtà è molto più complessa: non è forse il sintomo stesso la soluzione che abbiamo trovato per noi stessi?

Non ci domandiamo quasi mai: “ma che significato ha questo sintomo per me?”, perchè tutta la nostra energia è concentrata sul cercare di eliminarlo, di cancellare dalla nostra vita quella cosa che ci fa stare tanto male, ma non ci rendiamo quasi mai conto che la nostra stessa vita si regge su quel sintomo che rappresenta in qualche modo una soluzione per noi.

E’ allora probabile che tu non abbia bisogno di uno psicologo perchè risolva i tuoi problemi. Questa è una cosa che stai già tentando di fare a modo tuo.

E’ un luogo comune pensare che lo psicoterapeuta risolva i problemi a chi non è capace di farlo da sè. Purtoppo (o per fortuna) nessuno al mondo è in grado di cambiare la tua vita se non tu!

Quello che un terapeuta potrà fare per te, sarà accompagnarti in un percorso di scoperta di te stesso, di comprensione profonda di quello che ti sta capitando e perchè proprio a te. Senza giudizio. La psicoterapia ti aiuterà a scoprire parti di te inesplorate che potranno arricchire il modo con cui vedi e interpreti te stesso e il mondo. La psicoterapia è un’esperienza unica per ognuno di noi e per te può fare tanto se darai una possibilità a te stesso di prenderti cura del tuo dolore.