Questi ragazzi sono fragilissimi. Ce lo diciamo e glielo diciamo. Vale per tutti senza eccezione alcuna, poco importa se con una parola pretendiamo di caratterizzare 9 milioni di persone (10-24 anni). Siete tutti fragilissimi perché ve lo diciamo noi adulti, punto e basta. Noi, quelli del posto fisso e gli ETF in banca, quelli che l’adolescenza l’hanno risolta con successo e se la sono lasciata alle spalle, quelli che “ai nostri tempi…”. Più autorevoli di così…

Solo la settimana scorsa ho affrontato l’argomento tre volte fuori dal mio orario di lavoro: con un’avvocata, persona colta e garbata preoccupata per il futuro, con un rivenditore di elettrodomestici secondo il quale i giovani non sanno più stare al mondo fatta eccezione per i suoi collaboratori tutti responsabilissimi giovanotti e in una chat di genitori dove si commentava una lettera al direttore del quotidiano locale che trattava a sorpresa della fragilità dei nostri figli (si, dei figli di tutti, anche della mia che probabilmente aprirebbe a testate un portone di titanio se la separasse da una miniera di caramelle).

Ho provato ogni volta ad alzare timidamente la mano per dire “io avrei una visione un po’ diversa, coi giovani ci lavoro da tanti anni e mi sembra che…” ma zero. Questa cosa dei giovani fragili è troppo bella, ci piace troppo per metterla in discussione, un confort topic così a la page che col cavolo ce lo lasciamo scappare per ritornare ai soliti “il meteo, la guerra e le tasse”.   

La fragilità è la tendenza che hanno alcuni materiali di rompersi al minimo urto, di andare rapidamente in frantumi se sottoposti a stimoli lievi, un po’ il contrario della resilienza, termine altrettanto in voga che indica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Dunque caro ragazzo, ti volevamo di linoleum ma sei di cristallo povero te. Ti volevamo forte e risoluto, tollerante ad ogni frustrazione, furbo ma onesto, spiritoso ma rispettoso, audace ma cauto, parsimonioso ma godereccio, domatore di ormoni e di impulsi sessuali ma mica troppo casto che poi sei noioso.

Ti volevamo come nessuno di noi è mai stato. Ma di questo non ci sono prove.

Quella di noi millennials è in fondo l’ultima generazione che ha potuto riscrivere il passato. I bambini ed adolescenti siamo stati non sono mai diventati contenuti per il web. Abbiamo iniziato a utilizzare i primi social negli anni zero, mentre stavamo scavalcando l’adolescenza, li usavamo malissimo perché ancora nessuno ci aveva capito niente. Ma dato che nostra madre al tempo era ancora tutta presa dal prendere confidenza col tasto d’accensione del il cellulare l’abbiamo fatta franca. E comunque, e questa è stata una doppia fortuna, internet non era sui telefoni e si doveva usare il computer. Eravamo in una botte di ferro (in ogni caso la sezione “ricordi” di facebook resta una landa di orrori)

Siamo stati gli ultimi a godere del privilegio di raddrizzare a parole un passato sbilenco se ci andava di farlo. A far da guardia alle nostre foto di bambini con la frangia storta, di prepuberi arruffati, di ventenni in minigonna e trucco pesante ci sono polvere e coperchi di cartone. C’è la memoria è vero, personale e collettiva, ma più il tempo passa più la gioventù è distante e se alcune esperienze non proprio edificanti non possono essere negate è comunque tendenza diffusa rievocarle con grazia. Una grazia che in origine non avevano neanche un po’. Ma eravamo giovani e pieni di vigore e tutto ci appariva giusto, age appropriate è il minimo della concessione.

La Gen z è la prima generazione in assoluto a vivere onlife. Tutti sono dappertutto e tutto è accessibile a tutti. L’adolescenza e la giovinezza vissute e osservate in mondovisione. I ragazzi sono sempre raggiungibili, non abbiamo più bisogno di fidarci, basta condividere la posizione o scaricare una di quelle app che localizzano il telefono. Li guardiamo scuotendo la testa mentre appiccicati allo schermo tanto quanto loro chiediamo l’amicizia al migliore amico di nostro figlio se lui ce l’ha negata. Osserviamo con fare morboso tutto quello che ha a che fare con la gioventù senza nemmeno sforzarci di capire, mentre ci affanniamo, nel migliore dei casi, di diventare quel genitore che avremmo voluto per noi ma di cui di certo non avevamo bisogno. I giovani hanno sempre colpa, colpa di essere esibizionisti, arroganti, prepotenti, senza valori. I mitologici, mistici e famigerati valori. Hanno la colpa di essere ciò che noi non saremo più. Un peccato originale per cui non è prevista redenzione.

Ho conosciuto tanti adolescenti in questi anni, non tanti come ne potrebbe conoscere un insegnante, ma ho avuto la fortuna e il privilegio di sondarne le profondità. Ho parlato a lungo con loro respirando la loro stessa aria, i loro tormenti sono divenuti i miei. Ho gioito con loro, pianto, sofferto; ci sono state discussioni accese, recriminazioni, abbracci e lacrime da asciugare, tante foto di patenti nuove di zecca, corone di alloro e dita medie alzate fuori dal cancello della scuola il giorno del diploma.

E allora questi giovani sono fragilissimi? Si, sono fragilissimi ed è per questo che luccicano e tintinnato come coppe di cristallo sollevate in aria invece che essere torbidi e sordi come il linoleum delle vecchie palestre. Fragili come solo la gioventù può essere ma anche forti come forte è la vita che con ostinazione rifiuta di essere confinata nella claustrofobia di certe definizioni.

Seguo molto la cronaca, specie quella che riguarda i ragazzi e ancora non riesco a capire cosa significa quando si parla “dei giovani d’oggi”. Mi ci sono rotta la testa ma proprio non riesco a comprendere. Al di là del fatto che ora sbattere il mostro in prima pagina consista nel diffondere in modo capillare informazioni morbose attraverso un uso ruffiano della rete da parte di media più o meno oscuri; il che significa non solo che in moltissimi vengono a conoscenza di cose che una volta avrebbero saputo in pochi ma anche che c’è molto più spazio per ogni singola notizia perché il web è sconfinato al contrario di un giornale.

Ma che cosa c’è in questa gioventù di tanto diverso dalla gioventù di un quarto di secolo fa? La mia che è l’unica che ho vissuto in prima persona. Quale innovazione hanno introdotto questi ragazzi nel crimine e nella tragedia che io non riesco a cogliere? Si sono aggiornati rispetto ai tempi come abbiamo fatto tutti, ma le corse in auto, la droga, gli stupri, le rapine, gli omicidi, ma anche la pigrizia, l’indolenza, la sfacciataggine, l’incoscienza, il sesso promiscuo, sono davvero in grado di suonare come novità?

Seppure domani qualcuno rapinasse le banche con la spada laser non verrebbe certo accreditato come l’inventore delle rapine in banca. Le rapine in banca esistono da quando esistono le banche, così come la fragilità esiste da quando esiste la vita e appartiene a tutti.*

Il tempo ha fornito nuovi mezzi e cambiato parzialmente i modi ma il succo mi sembra rimasto lo stesso.

Però parliamo di questa fragilità come se non ci fosse soluzione, come di una modifica profonda nel DNA delle persone, un’epidemia mai vista prima al cui contagio assistiamo impotenti. Impotenti ma allo stesso tempo cattedratici, perché “io ai miei tempi…”. Come fosse un fenomeno alieno che proprio non ci riguarda pur spaventandoci un po’ e sul quale comunque la sappiamo lunga.

Eppure, incredibile a dirsi, la scoperta più clamorosa fatta in tutti questi anni di conversazioni a tu per tu è stata che i veri preoccupati sono i figli (che però non scrivono libri, né tengono lezioni o seminari e in generale hanno scarsissime possibilità di dire la propria). E l’oggetto della loro angoscia i genitori. Dallo spacciatore alla prima della classe, dalla ragazza con una brillante vita sociale all’hikikomori tutti, ma proprio tutti, a un certo punto si sono concessi di esprimere una profonda inquietudine dovuta alla percezione della fragilità dei propri genitori.

“La mia famiglia funziona perché siamo in tre o ognuno ha il suo ruolo, se uno viene a mancare la famiglia non funziona più” mi ha detto un giorno un ragazzo sulla ventina mentre discutevamo del suo futuro e sulla possibilità di trasferirsi in un’altra città per motivi di studio “non me ne posso andare”, “ma prima o poi dovrai farlo” gli ho risposto “è vero, ma ora non posso immaginare di lasciarli, come faranno senza di me?”. F. è un bravo ragazzo figlio di genitori attempati e con un buon status socioculturale. La madre cronicamente depressa e un po’ incline all’abuso di alcol ha dedicato tutta la vita a crescere il figlio, mentre il padre piuttosto anziano ha sempre avuto poca voce in capitolo su ciò che riguarda F. una scelta un po’ subita e un po’ no. Quando ci conosciamo F. è incastrato in una dimensione paradossale: da un lato la famiglia gli chiede di essere abbastanza adulto e responsabile per occuparsi di faccende domestiche in sostituzione ai genitori, per fare da mediatore nella loro relazione di coppia, per essere una spalla solida e disponibile su cui piangere e all’occasione sostituire il padre nelle sporadiche uscite della madre, dall’altra ci si aspetta che resti bambino, che si lasci teneramente coccolare, che accetti di buon grado che gli si dica com’è e come dovrebbe essere e che continui a confermare la madre nell’essenzialità del suo ruolo. F. che pur sente una spinta evolutiva e di maturazione importante sembra non poter fare altro che indugiare in una posizione che non sente sua ma dalla quale non può sottrarsi perché se no crollerebbe tutto e lui ai suoi genitori vuole tanto bene. F. ha la chiara sensazione che crescere, crescere davvero, autorizzarsi a farlo, significherebbe polverizzare i propri genitori, mandare in frantumi equilibri e identità. Così F. non può andare avanti ma nemmeno tornare indietro. F. supera con successo l’impasse in cui si sente impantanato da troppo tempo quando si innamora.

Dalla scoperta di un sentimento nuovo e intenso per la prima volta rivolto all’esterno riesce a trarre forza e coraggio per rinnovare la natura dei legami con i suoi genitori che pur tra qualche lamentela e gelosia dimostrano di saper reggersi in piedi, in un equilibrio un po’ traballante ma tutto sommato accettabile. F. si trasferisce a vivere dalla sua ragazza cavandosela con un “qualche volta torna a casa che abbiamo voglia di vederti”.

Forse le fantasie mortifere di F. rispetto i genitori erano eccessive ma questo esempio fornisce la misura di quanto possa essere perturbante la fragilità dei genitori, soprattutto se con questa fragilità si sente di stare in un rapporto di diretta responsabilità.

Ci sono altri casi in cui le cose non si risolvono così bene, casi in cui la vera o presunta fragilità dei genitori satura tutto lo spazio di vita del ragazzo finendo col soffocare ogni spinta vitale.

Quando conosco D. ha 18 anni, oggi 23 ma nella sua vita è cambiato pochissimo, quasi nulla. Non ci sono stati diplomi, feste, amici con cui condividere piccole o grandi avventure, lavori per tirare su qualche soldo durante l’estate. C’è un passato ma non c’è un futuro, il presente è eterno. D. si trasferisce al nord con tutta la famiglia quando ha 17 anni, non vorrebbe lasciare la sua città ma così è deciso e non c’è margine, nemmeno per finire la scuola. Allora accetta ma pone una condizione: per almeno un anno non studierà né lavorerà. Gli anni diventano 6 ma per D. che è una ragazza brillante, spiritosa e molto carina potrebbe essere passato solo un giorno o l’intera vita. D. vive in una casa in cui il dolore è messo al bando, non è consentito soffrire mai che sia tristezza o malattia poco importa. Il padre di D. è stato a lungo lontano dalla famiglia per questioni lavorative mentre la madre, una donna che ha visto morire i genitori e un giovane fratello nell’arco di pochissimi anni, si è occupata esclusivamente delle due figlie. Dopo un anno dal trasferimento D. inizia a soffrire di attacchi di panico e così ci conosciamo. Ma mentre il panico in breve svanisce inizia una serie di sintomi psicosomatici che portano la ragazza a stare sempre male. Ciò che a parole non si può dire, ciò che la sua psiche non riesce a definire viene quindi espresso dal corpo. E allora non uscire di casa non è più una scelta ma una necessità, ad ogni timido tentativo di fare qualcosa per sé segue un rimbalzo indietro, tra le braccia della madre che pure sminuisce ogni dolore nell’impossibilità di comprenderlo. Non si sta parlando di una madre “cattiva” o egoista che vuole le figlie tutte per sé, è una donna sinceramente preoccupata anche se l’eccesso di indulgenza risuona un po’ sinistro. È una donna completamene impreparata ad occuparsi del dolore che probabilmente lei per prima non ha mai elaborato. “Quando è morta mia madre e poi mio fratello e in ultimo mio padre ho iniziato a pensare: ma se perdo anche loro (le figlie)?” mi ha confidato una volta in una delle rare deroghe alla sua leggendaria imperturbabilità. Per riprendere la terminologia prestata dai materiali essere duri e puri non è necessariamente sinonimo di resilienza, come insegnano i diamanti, durissimi e fragili allo stesso tempo. A D. è negato il privilegio di perdersi perché dallo sguardo della madre non c’è porta che possa mettere al riparo e là fuori il mondo è pericoloso e perverso. Anche in questo caso il messaggio è ambiguo: vai ma resta. Rimandando a un domani che non arriva mai il congedo dall’infanzia.

C. ha 30 anni ma la sua angoscia fa la sua decisa comparsa quando poco più che 20enne lascia il lavoro per aiutare il padre nell’impresa di famiglia. C. ha sogni bellissimi che ha dovuto chiudere in un cassetto perché l’azienda assorbe ogni sua energia. È una ragazza risoluta, intraprendente e molto motivata ad essere di aiuto al papà, così in poco tempo oltre a risanare alcuni aspetti dell’attività le vengono riconosciute sempre più responsabilità. C. non viene a chiedermi cosa fare della sua vita come succede di solito, perché lo sa già, ha un piano in mente, razionale e ben organizzato che la porterebbe molto lontano da dov’è ora. Il grande ostacolo è che la sola idea di abbandonare suo padre l’atterrisce, un padre che una volta visto fragile e bisognoso di lei non ha più smesso di vedere così. D’altra parte il padre, messo ormai nella condizione di camminare con le sue gambe e ben consapevole che la figlia abbia progetti diversi, sembrerebbe alimentare il rapporto di dipendenza/sudditanza reciproca con C. che ormai è un po’ madre un po’ factotum malpagato. Una fusione e confusione di ruoli drammatica per la ragazza che vive la possibilità di autodeterminarsi come un tradimento nei confronti del padre, un padre che nonostante tutto continua a comportarsi come fosse ovvio che il posto della figlia sia al suo fianco. In quella che è la sua impresa, il suo sogno, ma non quello di C.

Solo tre esempi pescati tra i tanti, storie di relazioni quotidiane, di famiglie comuni, di padri e madri e figli e brava gente. Non sto cercando di dire che ad essere fragili siano i genitori e la fragilità dei figli sia loro esclusiva responsabilità. Sto parlando di una dimensione, una dimensione insita nella natura umana che per ciò appartiene a tutti. Una possibilità forse più relazionale che personale dato che è proprio dall’incontro con l’alterità che prendiamo consapevolezza di quanto siamo fragili, di quanto la nostra pelle sia sottile e sensibile agli urti delle cose che si muovono intorno a noi. Se noi adulti invece che esercitare in massa quella difesa che gli psicoanalisti chiamano identificazione proiettiva negando la nostra stessa fragilità per attribuirla in toto alla gioventù, riuscissimo a riappropriarcene e prendercene cura come qualcosa che non ha intrinsecamente un valore negativo ma che è semplicemente elemento della natura umana, se riuscissimo a rinunciare a un po’ di quel narcisismo che ci fa dire “io so come vanno le cose” e sostituirci a loro alla prima difficoltà, forse saremmo in grado di guardare i nostri figli con occhi diversi, meno giudicanti e ansiosi, con fiducia. E forse, accompagnarli in questo bellissimo viaggio la cui destinazione finale è il proprio posto nel mondo costerebbe a tutti un po’ meno dolore.

*Se si guarda al numero totale dei minorenni arrestati o fermati dalle forze di polizia, siamo passati dalle 34.366 segnalazioni del 2016 alle 26.271 del 2020, con un calo percentuale del 24%. Non tutto è esito della pandemia. Il calo, infatti, era già riscontrabile nel 2019 quando le segnalazioni erano state 29.544, con un calo rispetto al 2016 del 15%. Antigone