C’è un aspetto nel nostro mestiere che si da per scontato, un’ovvietà che si fa un po’ meno ovvia man mano che passa il tempo e si susseguono i volti e le storie: l’attesa.
Quante volte avrei voluto uscire dalla mia stanza, prendere per mano qualcuno e accompagnarlo di persona là fuori nel mondo per proteggerlo, difenderlo, aiutarlo, supportarlo, consigliarlo, sussurragli all’orecchio “sta attento”. Guardare con i miei occhi, sentire con le mie orecchie. Ripristinare meccanicamente un equilibrio.
Fantasie naturalmente.
La mia poltrona, la mia stanza, il mio ruolo mi legano a loro. Stretta. È giusto, ci sto. Ma che posizione meravigliosamente ingrata ci tocca.
Lì seduti in perenne attesa. Senza nemmeno poter sbirciare dal buco della serratura. Condannati a un costante sforzo immaginativo di cose, luoghi, persone, eventi. Ologrammi, precipitati di emozioni. Dimensioni parallele in cui accade solo ciò che si vuole e ciò che è necessario.
Ma lasciar andare, accettare che la vita là fuori se la giochi il legittimo titolare, aver fiducia, tollerare le pause, le assenze, i distacchi infondo è tutto ciò che davvero importa.
E a noi non resta che dire: fa buon viaggio, io sono qui.